Francesco Cataldo Verrina / Doppio Jazz
SE QUALCUNO VI CHIEDE CHE COSA SIA IL JAZZ, RISPONDETE PURE: «SOMEDAY» DI MARC COPLAND QUARTET!
Si potrebbe dire che Marc Copland sia un artista dalla doppia vita. Partito come sassofonista con ottime collaborazioni in qualità di sideman, tra cui Chico Hamilton, Cameron Brown e Jeff Williams e John Abercrombie. Insoddisfatto dei limiti armonici del suo strumento, a metà degli ’70 anni, il giovane Copland lascia New York, eclissandosi per circa un decennio in cui si dedica allo studiò pianoforte. Partendo da alcuni punti di riferimento come Bill Evans, Keith Jarrett e Herbie Hancock inizia a sviluppare presto una propria tecnica sullo strumento, che lo porterà all’età di quarant’anni, nel 1988, al primo disco come band-leader. Oggi Copland ne vanta circa una quarantina in vari formati: piano trio, duo o quartetti e quintetti con sassofonisti e trombettisti, dai quali emerge uno stile distintivo ed autonomo rispetto alle iniziali influenze.
Oggi all’età di settantacinque anni Marc Copland è uno di pianisti più autorevoli e rispettati a livello planetario ed il suo ultimo lavoro «Someday», pubblicato da Inner Voice Jazz – New York, ne conferma la visone d’insieme, nonché la lungimiranza compositiva ed esecutiva. Pur realizzato con musicisti più giovani di fama meno conclamata rispetto a quelli frequentati in passato da Copland (Gary Peacock, John Abercrombie e Paul Motian), l’album si rivela come un piccolo scrigno di tesori ritrovati, o da scoprire, di elevata qualità sonora ed interpretativa. Registrato l’11 e il 12 gennaio del 2022, presso il Katsuhito Naito del Samurai Hotel di New York, il pianista si avvale del sostegno di Robin Verheyen al sassofono, Drew Gress al basso e Mark Ferber alla batteria. Nonostante Copland abbia lasciato tracce indelebili nella storia del jazz contemporaneo in piano trio, la presenza di un sax, rende il costrutto sono più fluido consentendo al band-leader una serie di interplay da manuale sulla prima linea. Del resto, lo stesso Copland, pur avendo collaborato in passato con musicisti di rango, dice di Verheyen: «Robin è il mio sassofonista tenore e soprano preferito». Al netto dei cliché e dei luoghi comuni, ciò che conta è il risultato finale. Verheyen padroneggia un soprano a tratti potente ma risulta estremamente sicuro dal punto di vista dell’intonazione, tanto da non far rimpiangere il suo insegnante Dave Liebman; per contro il suo tenore produce un suono piacevolmente spontaneo, per nulla scolastico ed affettato.
Marc Copland diventa il vero motore mobile del quartetto, il collante ideale per un line-up sinergico ed affiatato, esprimendo un tocco così delicato e deciso al contempo, ma con una profondità armonica non comune, creando una bellezza sorprendente in ognuna delle otto tracce dell’album. I tre sodali sono sono perfettamente in sintonia con la visione del leader: l’elasticità della melodia, la fluida spontaneità, la voglia di sorprendere e il raggiungimento dell’equilibrio armonico sono gli elementi cardine su cui poggia tutto l’impianto costruttivo de set. Senza tema di smentita, possiamo affermare che «Someday» sia uno dei più riusciti lavori di Copland realizzati in quartetto. Basta l’opener a fugare ogni perplessità. In «Someday My Prince Will Come», il pianista maneggia la melodia come un sacra reliquia, mentre Verhetyan lo asseconda aprendo le porte del templio a Gress e Ferber, i quali eseguono la partitura come una liturgia o un rito propiziatorio. «Spinning Things», a firma Copland, è un perfetto gioco a quattro, l’intesa relazionale fra i musicisti è piuttosto interattiva e telepatica. Ferber alla batteria usa un approoccio alla Paul Motian, mentre il movimento pianistico del band-leader è leggero e fluente, quasi sospeso a mezz’aria.
Tra gli inediti spiccano le due composizioni di Verheyen: «Dukish», un omaggio Duke Ellington, in cui il sassofonista-autore prende in prestito l’aura magica di Johnny Hodges esaltandosi nel registro più alto dello strumento, dove le pause giocano un ruolo importante. La prima battuta contiene tre note, la seconda quattro, la terza tre e la quarta due. Le note sono talvolta irruvidite in modo dissonante dal soprano; «Encore» non è da meno, sostanziandosi come una ballata languida e brunita, in cui piano e sax soprano si scambiano promesse per l’eternità. «Let’s Cool One» di Thelonious Monk assume le sembianze di una divertente digressione. Come dice lo stesso Marc Copland è un modo di «swingare con un groove confortevole». In «Round She Goes», scritta da Copland, si srotola su un tema vaporoso e trasparente che gira intorno ad un ostinato, in cui la flessibilità e la compatibilità di Gress, Verheyan e Ferber sono tangibili e consolidate da profonde immersioni nella magniloquenza creativa del leader. «Day And Night» è un esempio di pianismo filigranato, implementato dal sassofono, dove gli assoli non sembrano improvvisazioni ma piuttosto abbellimenti, mentre la batteria incrementa il costrutto sonoro dalla retroguardia. In chiusura, «Nardis» di Miles Davis viene eseguita con grazia e disinvoltura, mentre Verheyen risveglia il fantasma di Ben Webster. «Someday» di Marc Copland rappresenta un distillato in purezza di modern mainstream. C’è una domanda spesso aleatoria ed inevasa, ossia che cos’è il jazz? Beh, possiamo rispondere ad alta voce: questo è il jazz!